Friday, September 18, 2009

Mattia Fustini: salviamo il panda, ma anche le vacche

Siamo alla facoltà di Veterinaria, nello studio del dott. Mattia Fustini che oltre ad essere dottorando presso il dipartimento di morfologia, fisiologia e produzioni animali, responsabile tecnico della stalla didattica dell’università, è figlio di allevatori di vacche da latte. Ha le sue radici nelle valli del Trentino. E’ nato in quel di Tione nel maggio 1982 e ha la passione per l’allevamento nel Dna, è infatti il presidente nazionale dell’AGAFI (Associazione Giovani Allevatori Frisona Italiana), cioè le classiche vacche pezzate nere. Mattia è orgoglioso delle origini e molto legato alla terrper forza di cosa da sempre vivono in famiglia.

 

 

- Che differenza di mentalità pensi che ci sia tra chi vive a contatto con gli animali e chi è un cittadino semplice consumatore (magari tra quelli più disinformati anche se spesso non per colpe proprie) ?

La vita in campagna ha un limite di contatti tra le persone rispetto a chi vive in città. Però vediamo che nel mondo moderno questa possibilità di contatti spesso non è sfruttata, la televisione è già da tempo un mezzo di distrazione di massa che allontana dalle altre persone, dal confronto. Il ragazzino moderno ha perso la possibilità del gioco di piazza che si faceva una volta. Per come sono cresciuto io, mi mancava la possibilità di avere tanti amici con cui vedersi fuori dalla scuola, soffrivo un pò l’isolamento della campagna, di chi sta fuori dal paese. Dall’altro punto di vista parti fin da subito aiutando a casa, magari seguendo la cura dei vitelli, facendo un po’ anche compagnia ai genitori mentre lavorano.

- Tu pensi che un ritorno alla cultura della terra tramite il rilancio di varie realtà come ad esempio la filiera corta, possa essere di aiuto per l’economia ? E in che misura ciò può costituire una sfida culturale in una società in cui tutto quanto di più vero e umano viene sempre più offuscato dall’alienazione data dal consumismo e la sua realtà “plastificata” ?

Allora il discorso è molto ampio: in generale diciamo che il contadino per forza di cosa deve seguire il mercato. Siamo plagiati su un modello di alimento finto per il quale la mela che compriamo deve essere perfetta così come l’uovo e l’insalata. quando in realtà la qualità non è quella dell’immagine, ma quella del principio nutritivo e quella organolettica (del sapore, n.d.r.). Abbiamo perso parecchi sapori. Però ci sono cibi per i quali non sono state utilizzate quantità massive di pesticidi e per le quali non sono stati utilizzati gli stessi ibridi di piante, rispettando quella variabilità che rischiamo perdere per soddisfare un mercato standard. Negli ultimi tempi è nata una sensibilità nuova : si è visto che certe produzioni hanno un peso ambientale ed economico molto forte. Per arrivare ad un prodotto esteticamente di serie A, se ne butta una grossa parte perchè considerato prodotto di serie B, quando sarebbe consumabile. Fino ad arrivare al punto in cui prodotti che non vengono neanche raccolti perchè costa di più la raccolta che lasciarlo in campo o distruggerlo sul posto. Questo è un tipo di prodotto che viene pagato 20 cent al produttore ed arriva al consumatore ad 1 euro. La filiera corta serve proprio per arginare questo problema, saltare le intermediazioni. La logica industriale capistalistica ha sempre dettato legge e la filiera corta spezzerebbe questi meccanismi: guadagna di più il produttore, spende di meno il consumatore. Tuttavia bisogna stare attenti, è difficile che la filiera corta riesca a coinvolgere la totalità della produzione, rimane una cosa di nicchia. Perchè bisogna pensare ad i nostri ritmi di vita e alla densità abitativa, la maggior parte delle persone vive in città, hanno quindi queste persone modo di recarsi tutti i giorni al distributore del latte, anche quando esso si trova in centro città ? Qui nascono i problemi per via della deperibilità di certi prodotti, in particolare quelli lattiero-caseari.

- E’ la pigrizia uno degli ostacoli maggiori ? I gruppi di aquisto (GAS) sono una via d’uscita?

E’ pigrizia ma è scusata da certi ritmi di lavoro, i GAS sono un’ottima risposta per esempio per quanto riguarda l’aquisto della carne. Se si sviluppa una sensibilità in questo senso, ci potrebbe essere anche la distribuzione del latte porta a porta. Se un certo numero di famiglie che abitano vicino tra loro ritirano tutti i giorni una bottiglia di latte, il produttore si organizza per consegnarlo e la rete di distribuzione potrebbe funzionare benissimo. Ottimizzando i tempi ed i costi. – In questo modo verrebbe anche ricompensato in maniera adeguata il lavoro degli agricoltori, sia economicamente, che socialmente, con il riconoscimento del loro ruolo di tutori dell’ambiente ….. Se si prende il prodotto appena uscito dall’azienda esso è meno sofisticato e non ha subito nessun processo. Ovviamente è privo di conservanti e non è imbottigliato in atmosfera protetta e quindi ha una vita commerciale molto più breve, tuttavia identificare questo prodotto come proveniente da un determinato allevamento anzichè dall’industria lattiero-casearia è qualcosa che crea più fidelizzazione del consumatore verso chi produce. Qual è il problema? Secondo te quanto latte degli allevamenti potrebbe essere venduto attraverso questo mercato diretto ? L’ideale è che potesse essere venduto la maggior parte, ma siccome in realtà chi ha il distributore vende una piccola percentuale del suo latte e l’altra parte la deve comunque consegnare al caseificio, è un rischio che si crei il latte di serie B (che va al caseificio) e il latte di serie A (che va al distributore, dove viene pastorizzato n.d.r.), che però in realtà sono lo stesso latte. Ovviamente quello fresco crudo è come prodotto finale migliore anche se dall’altra parte l’allevatore deve comunque vendere tutto il suo latte. Poniamo che ad esempio se tutte le aziende di Ozzano si mettano a vendere latte crudo e quindi poi i consumatori inizino ad essere troppo pochi, i produttori quindi si metterebbero in concorrenza tra loro e avremmo chi da 1 euro passa a 90 cents al litro, o ad 80, pur di avere mercato visto che tanto ormai l’investimento del distributore si è fatto. Si tornerebbe così ad una competizione del singolo. Quello che dobbiamo secondo me ricordare è che il caseificio inteso come coperativa, (Granarolo ad esempio), è nato per unire i produttori perchè possano vendere tutti insieme latte al consumatore e quindi essere organizzati con un unica macchina di confezionamento, un’unica rete vendita, un unico nome. Tutto ciò se vogliamo “spersonalizza” un pò in quanto non è possibile raccogliere separatamente il latte dalle varie aziende. Però lo spirito della cooperazione è molto importante per l’ Italia per il settore primario che ha sofferto storicamente sempre, prima dai propietari terrieri poi dal sistema industriale. Allora se noi diciamo che il latte della cooperativa è meno buono del latte del distributore, ingeneriamo nel consumatore l’idea che sia di serie B. perciò più faticosamente quel latte lì emergerà rispetto al latte ungherese, tedesco, austriaco perchè la gente penserà serie A il distributore, serie B tutto il resto. Invece bisogna fare capire che le aziende vendono tramite il distributore e soddisfano per ora una nicchia di mercato ma la maggior parte del latte la vendono attraverso la cooperazione e la grande distribuzione. Importante allora valorizzare anche questo questo latte.

- Cosa pensi dell’attività del ministro Zaia a proposito delle celeberrime quote latte ? Si tratta di un regalo ai furbi ?

Domanda molto scottante. La mia impressione è che nel pasticcio che c’è sempre stato nella regolamentazione delle quote latte, grazie a questa legge sia stato appianato il deficit di quote dell’Italia rispetto alla produzione reale. Però l’attribuzione di queste quote richieste a livello europeo è andata agli allevatori che non avevano mai acquistato queste quote e quindi erano in esubero di produzione. La consistenza delle multe per questi allevatori in esubero di produzione è comunque inferiore a quanto previsto e inoltre il pagamento è rateizzato. Quindi chi è ha rispettato la legge mantenendo il tetto di produzione o acquistando quote si trova a non ricevere niente, mentre chi ha fatto il furbo non acquistando e producendo oltre le regole si trova offerte in regalo delle quote. Questo non è un bel esempio. Questa decisione inoltre è nata dall’idea che, vista l’impennata del prezzo del latte ad inizio 2008, producendo più latte si potesse arrivare ad avere più reddito quando in realtà l’aumento della produzione ha inflazionato il mercato. Così adesso scontiamo un prezzo del latte veramente al di sotto dei costi aziendali. – So che sei di ritorno da una riunione diciamo così “itinerante” dell’ AGAFI, di cui sei il presidente, avvenuta tra Puglia e Basilicata : quale clima si respira tra i giovani allevatori in questo difficile periodo ? Ogni anno ci troviamo a livello nazionale tra Dairy Club provinciali. E’ un momento di confronto e di conoscenza tra ragazzi di realtà lontane e vicine tra loro. In questo modo è più facile fare sistema e ciò significa essere uniti tralasciando le gelosie per i colleghi. I giovani hanno il compito di portare nuova linfa agli allevamenti in questo periodo di difficoltà economica che causa scoraggiamento tra i genitori che conducono le aziende. Il giovane con il suo entusiasmo è importante anche per l’unione tra produttori che attraverso il sistema cooperativo, in cui crediamo molto, può affrontare il mercato e poter anche imporre un sistema di qualità a duro prezzo affermatosi in Italia. L’unione dei produttori di fronte agli industriali è fondamentale.

- Ogni anno il numero degli allevamenti diminuisce sempre più : quanto è chiaro alle persone che se si estinguono gli allevatori si estinguono anche le vacche ?

Latte e latticini in Italia vengono comunque consumati. Se noi non diamo adeguata informazione riguardo alla produzione di latte, cosa succede? Il latte ungherese viene valutato uguale al latte italiano, al latte belga, al latte tedesco. Abbiamo visto che l’aver sotto controllo gli allevamenti, le tecniche e gli alimenti per gli animali, è un punto molto importante per la sicurezza alimentare. La sicurezza alimentare viene persa quando noi subiamo l’importazione di latte dall’estero, che di solito non è il miglior latte di quei paesi, in quanto si vende il latte che è in eccesso. Il latte poi è un alimento molto deperibile quindi chissà cosa può succedere durante i trasporti. I prodotti tipici sono il fiore all’occhiello per l’Italia, migliaia di tipi di formaggi diversi di grandissima qualità. Sappiamo che il Parmigiano Reggiano non può essere fatto con un latte qualunque e gli stessi formaggi gustati durante il convegno AGAFI in Puglia erano diversi da quelli di altre regioni italiane, così come il pane , le carni, etc. Le materie prime erano uniche, per via dei foraggi e dei metodi di allevamento. Perderle vorrebbe dire perdere un’alimentazione di qualità. Se andiamo in questo senso andiamo verso il fast-food con carne, formaggio, maionese, insalata spersonalizzati, mangiati tutti nello stesso momento avendo un equivalente nutritivo equivalente se non maggior quantità calorica, ma una piattezza di gusto notevole. Questo per dire che poter mantenere la tradizione ma anche l’allevamento in Italia vuole dire anche mantenere un’indipendenza da questi modelli, da questi sistemi che si impongono sempre più ma a cui il consumatore può dire no. Non è sempre vero che l’aumento di pochi centesimi nella pasta o nel latte sia qualcosa di inaffrontabile, capisco che rientri nei costi ma per mangiare spendiamo una quantità veramente bassa della nostra disponibilità di denaro. In realtà 70 anni fa si spendeva l’80% delle proprie risorse per mangiare, oggi spendiamo il 20-30 %. Quindi secondo me nella gerarchia dei bisogni, mangiare bene e poter distinguere ciò che mangiamo, entrando nella cultura che vi sta dietro, è fondamentale. Questa cultura preserva il territorio e lo mantiene vivo con le sue tradizioni e tutela l’ambiente. Il fatto di lesinare sul centesimo, porta alla chiusura di moltissimi allevamenti. Come ci dicono le statistiche. La chiusura costante e annuale di allevamenti, cui se ne sostituiscono altri sempre più grandi i quali sorgono su un territorio più piccolo con maggior impatto ambientale. Questo perchè ci viene inculcato dall’alto l’obbligo di sfornare cibi a basso costo.

-La nuova civiltà contadina è composta in gran parte da lavoratori stranieri. Sappiamo che l’azienda della tua famiglia è un esempio positivo di integrazione multietnica in questo contesto. Parlacene un pò.

l lavoratori extracomunitari sono indispensabili per fare andare avanti la zootecnia e soprattutto il settore ortofrutticolo qui in Italia. Bisogna ricordare che loro non sono assolutamente in competizione con italiani che cercano lavori come il raccoglitore o il mungitore : l’italiano non si presta più a fare questi importantissimi lavori. A casa non abbiamo trovato nessun lavoratore italiano che accettasse di buon grado di svolgere la mansione di operaio zootecnico. Mentre invece ci sono persone straniere che hanno una grande passione e a volte maggiore sensibilità nella cura dell’animale. Per loro è naturale produrre alimenti per sfamare. Oggi nella nostra società l’alimento è visto come qualcosa che ingrassa ma tranne i nostri nonni nessuno di noi ha vissuto la fame. Non conosciamo la carestia e quindi l’alimento è visto come qualcosa di calorico e che fa male. In realtà è una distorsione della realtà. Se i bambini che crescono con le merendine e alimenti prodotti dalla grande distribuzione avessero la possibilità di vivere in azienda, con un alimentazione più sana (meno conservanti e sofisticazioni) e il movimento dato dall’attività fisica, potrebbero mangiare quanto vogliono e non avrebbero nessun problema di obesità. A casa nostra abbiamo avuto come collaboratore prima un ragazzo indiano che è cresciuto formandosi e imparando il mestiere presso il nostro allevamento con grande abilità, da qui poi il ricongiungimento con la famiglia: cosa molto importante in quanto chi lavora deve poterlo fare in serenità ed avere la famiglia all’estero non è di certo condizione adeguata. I bambini si sono ben integrati nelle scuole, grazie alla disponibilità di tutti. Poi si sono aggiunti altri due collaboratori sempre indiani della regione del Punjab, (a nord dell’India ai confini col Pakistan), da dove provengono la maggior parte dei mungitori. La popolazione di quelle aree è infatti dotata di grande sensibilità verso gli animali. L’integrazione è stata naturale.

Ora Mattia deve andare in stalla didattica di facoltà, per controllare che tutto sia a posto: è quasi sera e il rito della mungitura sta per iniziare.

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